MATER STRANGOSCIÀS — Avvenire / 3.04.2001

MATER STRANGOSCIÀS IL DOLORE DAVANTI ALLA CROCE

Pierachille Dolfini

 

Cesano Boscone. Una maglietta lacera, madida di sangue e sudore, è stesa su un filo. In sottofondo la più sinfonica delle melodie di Battiato, “L’ombra della luce”. E, nell’ombra di una luce fioca, un uomo spezza un pane e beve da un calice. Un breve silenzio. L’uomo si trasfigura e inizia a riversare sul pubblico un fiume di parole. E’ il folgorante “incipit” che Dario Villa ha voluto dare alla sua messinscena di “Mater strangosciàs”, l’ultimo dei “Tre lai” che Giovanni Testori consegnò alla pagina scritta al termine della sua parabola artistica e umana. Lo strazio di una madre (una “mameta”, per dirla con il “verbum” testoriano) che vede un figlio morire: non una madre qualunque, ma la Madonna ai piedi della croce di Gesù. Questa Maria (che potrebbe abitare in uno qualsiasi dei paesi della Brianza di Testori) non è abituata a parlare in pubblico, ma il suo linguaggio, un misto di dialetto lombardo e latino, un continuo passare dallo stile alto della liturgia a quello basso delle cascine, ci scaraventa addosso tutta la sua sofferenza che si placa solo nel momento in cui essa riesce a parlare con il figlio (un delirio, forse): Gesù le apre gli occhi sulla speranza della resurrezione, evento di fronte al quale l’apparente insensatezza della vita acquista il suo significato più compiuto. Dario Villa offre una prova intensissima, calandosi con bella immedesimazione nei panni di Maria, per coinvolgere il pubblico in quello che lui stesso vorrebbe “un prolungamento del rito, per tornare alla dimensione sacrale del teatro”.

 

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