TEATRO PERIFERICO — Krapp’s Last Post / 2.4.2012

ETRE. FARE TEATRO, PERIFERICAMENTE

Renzo Francabandera

http://www.klpteatro.it/teatro-periferico-intervista-etre

 

Bisogna inerpicarsi al confine fra Italia e Svizzera per arrivare a Cassano Valcuvia (VA), in quel lembo di terra montano che si fa cuneo nel Canton Ticino, delimitato da lago Maggiore e lago di Como. Già a dirlo si capisce come non si stia parlando di un territorio neutro, ma di uno di quei luoghi magici dove fare arte, e teatro nello specifico, ha un senso quasi animistico, di legame con la terra.

E’ qui che Promoarte/Teatro Periferico, associazione dedita alla promozione culturale e artistica di progetti teatrali e musicali composta da undici elementi ha stabilito la sua residenza, vincendo nel 2009 il bando Etre (Esperienze Teatrali di Residenza) della Fondazione Cariplo.

La produzione attualmente in circuitazione, “UmidoeVento”, nasce da laboratori, letture degli scrittori di questa terra. In “UmidoeVento” questi autori, le loro invenzioni scritte sul territorio, le loro parole, trovano un’incarnazione, diventano essi stessi protagonisti dello spettacolo come personaggi, per un’opera omaggio agli autori, alle loro atmosfere, ai colori e alle figure del lago. L’idea nasce dall’idea drammaturgica di Loredana Troschel, e si basa su testi di Piero Chiara, Liala, Guido Morselli, Gianni Rodari, Vittorio Sereni e della stessa Troschel.

In una scenografia, ideata da Salvatore Manzella con Giuseppe Losi, e che pare venir fuori da qualche film di Greenaway, si muovono, come invitati ad un banchetto cerimonia, gli interpreti Enzo Biscardi, Giorgio Branca, Elisa Canfora, Alessandro Luraghi, Laura Montanari, Raffaella Natali, Loredana Troschel, Dario Villa e Giovanni Battista Storti.

Il lavoro, che nasce dalle letture di scrittori autoctoni, cerca un legame di senso e parole, in un gioco che contrappone, come in un montaggio analogico, le sequenze poetiche più delicate, provando a costruire anche un carattere ai diversi personaggi. La messa in scena dura un’ora e mezza e, dopo il pout pourri letterario, lascia maggior spazio ad un’incarnazione fisica della parola.

Rimaniamo ben impressionati dalla sequenza (il primo finale) in cui questi personaggi si abbandonano al lago, quasi risucchiati dalla sua immobilità immanente, una sequenza assai ben diretta e giocata fra suggestioni felliniane, con la banchina che diventa luogo per gli ultimi addii, con fermi immagine della memoria, qualcosa che in pittura, visti anche gli interessanti giochi di luce, potrebbe stare fra Hopper e Vettriano. Sulla drammaturgia sarebbe bello lavorare in sottrazione: c’è un po’ troppo di tutto e questo fa sì che, nel complesso, l’opera risulti lunga e appesantita da alcune parentesi di registro grottesco e da un (secondo noi) inutile doppio finale, in cui viene introdotta la figura del critico teatrale, che nulla aggiunge, anzi toglie all’equilibrio emotivo che ben si era consolidato sull’immobilità di cui abbiamo detto.

Con il prevalere della logica del meno, di quello che prossimo è all’indispensabile (logica di cui sempre e non solo in questo caso siamo tifosi), emergerebbero alcune idee che soprattutto sul versante del lavoro fisico e dell’immagine scenica risultano pregevoli, ma che vengono offuscate dal tentativo di mescolare troppo i registri, fra la commedia, la poesia, il teatro fisico e quello d’immagine.

Paola Manfredi, regista della compagnia, ha maturato in questo contesto il suo linguaggio fatto di lavoro sull’attore, partendo dall’organicità del corpo e accettando la contaminazione con il metodo di indagine del professor Duccio Demetrio sulle biografie, sulle storie, su cui a lungo la compagnia ha indagato.

Paola, come è nata l’urgenza del vostro progetto artistico?

Volevamo uscire dalla città e cercare un pubblico nuovo, “vergine”. Scegliere un luogo, meglio se di frontiera,  e stabilirci lì per cercare di vincere una scommessa: un piccolo teatro che tenta di mantenersi in virtù del rapporto creato con la popolazione, che ne diviene strumento di rappresentazione, ma anche arricchimento e di emancipazione. Abbiamo trovato un piccolo teatro liberty, ristrutturato da una lungimirante amministrazione comunale, e insieme gli abbiamo ridato vita.

Il vostro nome tradisce un senso di isolamento che è proprio di chi fa arte. E’ un sentimento che continuate a provare in forma tangibile? Qual è il vostro rapporto con il territorio?

Per noi  il termine “periferico” non ha un’accezione negativa, tutt’altro. Viviamo con una sorta di orgoglio il fatto di esserlo. Anche se avessimo lavorato in città, cosa che peraltro ci è accaduta nel passato, saremmo stati periferici nella città. Essere periferici è uno stile, uno stato d’animo, un modo di percepire. È essere “uncool”, controtendenza, gente da panchina.

E proprio parlando di rapporto con il territorio, senz’altro il vostro ultimo spettacolo va nella direzione di un dialogo, di un confronto e di una ricerca di segni e radici…  

“UmidoeVento” parla del lago. Io sono convinta che tutti i luoghi abbiano un’anima. Noi vediamo il paesaggio intorno a noi, ma c’è un’architettura di sentimenti, di forze, di pensieri, che stanno dietro al paesaggio, che nel nostro caso è una tavolozza verde circondata da montagne, finita, senza infinito. Abitare un posto significa diventare camaleonticamente dello stesso colore. Per questo definisco le residenze “nuove geografie poetiche”.

Quali sono i vostri progetti futuri?  

Questa volta non sarà un progetto che riguarda le nostre valli. Da molti anni, oltre a fotografare il territorio, cerchiamo di raccontarlo attraverso le storie delle persone. Racconteremo la storia dell’ex-manicomio di Limbiate, un comune della periferia milanese in cui abbiamo lavorato per anni prima di trasferirci qui, e questa volta con l’aiuto di altre residenze sorelle: delleAli, Teatro in-Folio e Ilinx.

 

 

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