MAI NATE — RUMOR(S)CENA / 4.04.2016

Mai nate fra Beckett e ossessione

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di Francesca Romana Lino

CASSANO VALCUVIA (Varese) – “Mai nate” è un testo di qualche anno fa. Uno dei primi di Tommaso Urselli, che, dopo una serie di rivisitazioni sceniche, che ne hanno visto pure lo stesso autore interprete di uno due protagonisti, torna qui in al femminile. “Senza che questo ne alteri il significato...”, assicura il drammaturgo, che ci tiene a sottolineare che il messaggio è trasversale; eppure sarebbe stato interessante confrontare le realizzazioni per verificare se le sole differenti fisicità di genere, ad esempio, non ne restituiscano un’altra poetica.
Sul palco, Elisa Canfora e Francesca Perilli sono due sorelle gemelle, svariate lune alle loro spalle, strette in un vincolo, che va ben oltre il legame di sangue. Sono due donnicciole fisicamente gracili, nascoste in ampi cappellini demodé e slabrati cappotti di panno pesante, che lasciano trasparire giusto quelle gambette nervose e dai passettini svelti e traballanti, che immediatamente dicono di tutta la stizza per una vita rotolata via senza un perché. Due personaggi beckettiani, intrappolati non tanto dalle pareti di quella stanza spoglia, in cui si lascian quasi sfuggire di esser state murate vive, quanto dall’asfittico doppio legame, che ne ha fagocitato le esistenze. Hanno tutto il furente rancore che latita in certi personaggi cechoviani messi a diretto confronto con lo scacco delle loro vite spese a vuoto nell’ostinato intento di restare fedeli a un ruolo pre assegnato.  E non possono che declinarsi in tic e naïvité: il solo modo per sublimarne la vanità.
Ognuna ha la sua tonalità emotiva, la sua azione-ancora, il suo pensiero magico o gesto apotropaico con cui esorcizzare lo sgomento. L’una ripete ossessivamente, a se stessa anzitutto, di quanto sia confortante starsene in quella stanzetta con le crepe alle pareti, sia pure, ma che non a caso è “il posto più caldo della casa” e torna ad intonare, con tono perentorio, la ninna nanna, che, forse, il padre cantava loro da bambine; l’altra brama una luna grande e pallida, con quella stessa spasmodica passione che è dei lupi, che ululano nel riaffiorare degli incubi paterni.

 

Già da subito i reagenti sono chiari ed ancor più resi tali dalla regia di Paola Manfredi, che attacca con un incipit segnico, che è una dichiarazione di guerra,ma senza bellicosità alcuna: quel cappotto, a nascondere l’una, per svelare la reale natura dell’altra. E’ una vita che stanno lì dentro, s’intuisce, eppure il testo non le mette a confronto che con problemi di ordinaria follia: non come sbarcare il lunario o anche semplicemente accennare al di ché vivere, ma il proiettare nelle azioni manipolative dei due orsacchiotti la relazione ancora fortemente infantilizzata fra loro e con la madre-godot-grande assente, il riaffiorare, a ondate, dei ricordi – spesso incubi -, che ci parlano di una disfunzionalità familiare, che si tramanda di generazione in generazione; lo smozzicare romantici sogni adolescenziali oramai irrealizzabili o il cauto leggere le impossibili lettere della madre abbandonante completano la casistica di queste esistenze scritte sul filo del surreale e che la regia porta in scena fra grottesco e liricità.
Come se la realtà non c’entrasse davvero: non è il canone verista, pare, ciò a cui interessa restare fedeli. Ecco perché poi lascia perplessi il repentino cambio di registro, per il quale una delle due a un certo punto irrompe in un: “Non posso più aspettare”, riferito, da testo, a un’impellenza fisica. Interessante già la scelta. A coronamento di quell’estenuante, ma poetico attendere e raccontare, raccontarsi e raccontarsela, davvero l’irrompere di una delle più basiche necessità biologiche sortisce l’effetto di quella rottura, di cui si avvertiva oramai la necessità drammaturgica. Solo che ci porta in un mondo fino a lì volutamente tenuto lontano, che invece sembra riaffiorare nell’unico ricordo diretto che la stessa gemella impone all’altra. Quasi uno spaccato di durezza eppure lusinga sottile: forse un rimpianto per quella normalità prosaica, da cui sono state risparmiate. Nel bene o nel male? Non sarebbe stato meglio un pentimento a cotanto rimpianto? E la madre: nei loro sogni talvolta si affaccia a chiedere perdono o a rallegrarsi, insieme a sua madre, di quella doppia presenza che veniva ad allietare le ultime luci della vita dell’anziana: del tutto simili a lei, avrebbero arricchito il mondo con la loro presenza, amplificandola, quasi, in quella doppia promessa forse per per questo doppiamente tradita. E il padre? La madre lo descrive “come suo padre e il padre di suo padre”: un uomo più “incattivito” che “cattivo”, ma che di fatto lei stessa ha dovuto lasciare e tener lontano dalla vita delle figlie, chiudendolo fuori dalla porta di casa, prima di andar via. Riecheggiano certi casi di cronaca alla Matthias Schepp.

 

Non c’è cronistoria però, ma poesia ora ruvida, ora surreale. Traspare da scelte registiche attente come quel far leggere la lettera della madre alla luce fioca, e forse per questo più discreta, di una candela tremula come lo sono le loro certezze: fragili e quasi empre per interposta persona. Cosa significa, del resto, essere “bambini” o restare “figli”, se non dipendere anzi tutto dallo sguardo di chi punta gli occhi davanti a noi? Azzeccata anche la soluzione delle due a costruire l’immagine della “super mamma” e tutto il gioco dei costumi, che si trasformano in segni scenici portatori di senso, anche. Una regia pulita e ben centellinata, quella della Manfredi, come i pochi ma precisi contributi sonori, ora a enfatizzare l’atmosfera, come il ticchettio del tempo, ora a stridere, come fa il jingle che crea subito straniamento, amplificando l’atmosfera surreale.
Di non minor importanza, in tutto ciò, ovviamente l’apporto delle attrici in scena, Elisa Canfora e Francesca Perilli. L’una con una grande esperienza anche col Teatro di Figura, l’altra passata dalle scuole dei più rinomati maestri internazionali, cesellano queste due donne dalla non semplice complessità dissimulata con una precisione e generosità effettive, ancorché misurate e non ostentate. Così io non credo che il fatto che le protagoniste qui siano due donne – e queste due donne – sia solo una delle possibili declinazioni: penso invece che il parlare del rimpianto del matrimonio, ad esempio, in trasparenza il fantasma di quell’abito bianco, che resterà inutilizzato, o lo stesso approccio quasi tattile con la tenerezza di quegli orsacchiotti, pur bistrattati nell’ostentato voler apparir bisbetiche dei personaggi, avrebbero avuto un altro colore e un’altra suggestione, se a reggerli fossero stati simulacri maschili.

Visto al Teatro Periferico di Cassano Valcuvia sabato 2 aprile 2016.

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